L’architettura
del nostro tempo tende a manipolare le forme in maniera indifferente o straniante
nei riguardi del fruitore.
La ricerca
di Herman Hertzberger si stacca da questo e sviluppa un idea di architettura
intesa come opera al servizio dell’uomo, in grado di rispondere efficientemente
ai suoi bisogni materiali e alle sue esigenze psicologiche.
Herzberger concepisce gli spazi
a partire dai soggetti che in essi si muovono, abitano e trovano riparo; non è
l’edificio in se ad essere oggetto di studio, quanto i suoi intrecci con aspetti di carattere psicologico,
antropologico e comportamentale, spazi capaci di ospitare, stimolare l’apprendimento
e la creatività.
La
definizione delle scelte dell’iter progettuale non più è affidata ad una “sintassi
visiva” che si avvale di alcuni sistemi di controllo come allineamenti,
geometrie e proporzioni, ma sembrano costruiti dall’accostamento di situazioni
esistenziali reali.
L’architetto
rinuncia alla volontà di plasmare il mondo secondo le sue idee e diventa un
interprete attento che sa ascoltare e comprendere l’uomo.
Un esempio
di questo è la scuola Montessori di Delft (1960), edificio che ha subito
successivi ampliamenti rivelando una grande duttilità nell’adeguarsi al mutare delle
situazioni ed esigenze.
Le aule sono
unità autonome disposte intorno all’atrio, come piccole case lungo una strada
comune; non esistono relazioni gerarchiche tra insegnanti ed allievo, come è
tradizionalmente, il compito del maestro è preparare un ambiente stimolante in
cui i bambini vivono liberamente al suo interno e nel quale possono sviluppare
in autonomia le loro facoltà fisiche, mentali ed emotive.
Il tutto si
basa sulla simultaneità delle diverse attività basata sulla libera scelta dei
bambini; vi è un attenzione fortissima a evitare ambienti anonimi e impersonali
dando spazio ad un senso di domesticità, di calore e di protezione.
Vi è inoltre
il bisogno di radicarsi, di costruire luoghi significativi in cui riconoscersi.
Lo sforzo di
immaginare le sensazioni e i desideri delle persone, nel loro rapporto con gli
spazi dell’architettura, porta Hertzberger a sperimentare soluzioni in cui un
ruolo importante è la partecipazione creativa degli utenti.
Il progetto
delle case Diagoon (anni 70) segna il
passaggio dall’imposizione di modelli precostituiti a un principio di
organizzazione in cui è lasciata all’individuo la facoltà di elaborare un
proprio modello spaziale, per far si che egli si possa identificare in esso.
La città è
un sistema in continua trasformazione,
ma vi sono esempi di strutture urbane che nei secoli hanno mantenuto la
loro identità, ossia la forma architettonica sopravvive alle vicende della
storia proprio grazie alla sua attitudine ad adattarsi a nuovi usi e ad
ospitare funzioni diverse da quelle per cui era stata pensata. La disponibilità
al mutamento diventa il punto di forza dell’architettura di Hertzberger.
Egli guarda
alla città compatta tradizionale come un “libro di pietra” da cui trarre
indicazioni ed insegnamenti, mentre gli spazi aperti moderni sono, secondo lui,
destinati a diventare “terre di nessuno”, le strade e le piazze della città
compatta sono accuratamente dimensionati ed articolati.
Soprattutto nel
progetto di edifici pubblici egli sembra di voler portare la complessità degli
spazi urbani all’interno della sua architettura.
Fondamentale
è lo spazio centrale di questi edifici, che contiene tutti gli elementi di
circolazione, ne scaturisce un edificio come una piccola città, il sistema
distributivo è pensato come una rete di strade, in cui interno ed esterno si
sovrappone. Inoltre più grande è la distanza dell’edificio dalla città e tanto
più al suo interno deve esserci una qualità urbana.
Un esempio è
il collegio Montessori (1999), periferia est di Amsterdam. Egli parte da un idea di città, in cui gli
spazi connettivi sono pensati come aree di flusso e come zone di relazione, in
cui è possibile soffermarsi e riunirsi, proprio come nelle strade e nelle pizze
della città.
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